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LA QUESTIONE EBRAICA 49 Noi e loro

  • Opinioni

LA QUESTIONE EBRAICA 49 Noi e loro

 

Come a tutti i libri di storia veramente profondi, anche per La questione ebraica nella società postmoderna di Emanuele Calò si può dire che i suoi contenuti non solo restano sempre attuali, ma anzi vedono continuamente mutare il loro contenuto e insegnamento, a seconda dei momenti storici in cui le pagine del volume vengono lette. Il libro è stato pubblicato solo nel marzo dell’anno scorso, frutto evidentemente di lunghi anni di acribiosa ricerca, ma certamente la sua lettura, in questi giorni, suscita reazioni molto diverse da quelle che poteva sollecitare un anno e mezzo fa. E domani, certamente, esso avrebbe un senso ancora diverso. Quel che è certo è che il suo interesse resterà sempre altissimo, fino a quando si sarà costretti a riconoscere che una “questione ebraica”, purtroppo, esiste. Esso potrà perdere rilevanza solo il giorno in cui l’atteggiamento del mondo verso gli ebrei sarà pari a quello riservati agli esquimesi, agli uruguagi, agli evangelisti, agli svizzeri o ai portatori di lentiggini. A qualsiasi comunità, cioè, portatrice di una qualsiasi specificità etnica, nazionale, religiosa, culturale o somatica. Verrà mai, quel giorno?  Forse dopo la venuta del Messia, ma quel che è certo è che noi non lo vedremo, e neanche i nostri pronipoti.

Questa riflessione è suggerita dalle pagine del libro, già affrontate la scorsa puntata, in cui sui si parla della questione della cosiddetta “degiudaizzazione” del cristianesimo, ossia dei reiterati tentativi di recidere, occultare o stravolgere la sorgente ebraica del cristianesimo, l’ebraicità di Gesù, dei suoi genitori (naturale e ‘putativo’), della sua cultura, dei suoi seguaci, del popolo e della terra in cui visse, predicò e morì.

Com’è noto, l’idea di una totale ‘alterità’ del cristianesimo rispetto all’ebraismo, comportante il rifiuto totale di tutte le precedenti scritture bibliche, fu sostenuta apertamente in alcuni ambienti della Chiesa delle origini, per essere scartata, finché, dopo il Concilio Vaticano II, la Chiesa ha sancito in modo ufficiale, e apparentemente definitivo, che “Gesù è ebreo e lo resterà per sempre”, così come che “senza l’Antico Testamento, il Nuovo sarebbe un libro indecifrabile, una pianta privata delle sue radici e destinata a seccarsi”. Ho scritto ‘apparentemente’, perché, se i documenti ufficiali della Chiesa non possono essere modificati, possono benissimo (e accade molto spesso) essere messi da parte, chiusi in un cassetto, espunti dalla catechesi vivente. Nelle omelie recitate durante le sacre funzioni, per esempio, ormai non vengono mai lette le numerose e lapidarie farsi misogine di San Paolo, che striderebbero con i nuovi tempi. Quelle frasi, che fanno parte del Nuovo Testamento, e provengono dalla voce di colui che può essere a buon titolo considerato il vero creatore della nuova religione, non sono certo state abrogate o cancellate. Semplicemente, non vengono più lette, cosicché vengono, di fatto, silenziate. E lo stesso accade, certamente, riguardo ai riferimenti – che pervadono interamente di sé i Vangeli – alla ebraicità di Gesù, che sembra diventata un dato imbarazzante, nel momento in cui, come ha autorevolmente notato il Rabbino Capo di Roma, Riccardo Di Segni, con sempre maggiore frequenza viene riproposta, ex cathedra, la vecchia contrapposizione tra un “noi – gli appartenenti nuovo popolo cristiano – buoni” e un “voi – i membri del vecchio popolo d’Israele – cattivi”.

Quel che è interessante notare è che i tentativi di degiudaizzazione, respinti dai primi concili, hanno continuato senza sosta a essere riproposti, in vari modi, soprattutto da parte di soggetti estranei all’ambiente ecclesiastico. Calò ricorda che George Mosse ha spiegato come la presentazione di Gesù come un soggetto completamente “altro”, “fuori dalla storia” (e quindi anche dall’ebraismo), sia stata attivamente coltivata dalle ideologie razziste del primo Novecento, che avrebbero così spianato la strada “toward the final solution”. E il razzista Ernest Renan si impegna a fondo in un’operazione del genere, di cui aveva assoluto bisogno: “La popolazione di Galilea era assai mista, come indicava lo stesso nome del Paese. Fra i suoi abitanti, al tempo di Gesù, questa provincia contava molti che non erano Giudei, come Fenici, Sirii, Arabi e perfino Greci. In tali paesi misti non erano rade le conversioni al Giudaismo. Qui non è dunque possibile sollevare una questione di razza, ed investigare qual sangue corresse nell’uomo che più d’ogni altro ha contribuito a cancellare nell’umanità le distinzioni di razza”.

Quell’“uomo che più d’ogni altro ha contribuito a cancellare nell’umanità le distinzioni di razza” doveva essere utilizzato come grottesca base per il più violento, cieco e brutale razzismo. Non bisogna investigare sul “sangue” di Gesù, per potere passare al microscopio quello di coloro che vengono considerati (a torto) parte del suo stesso popolo.

Bizzarrie del razzismo. Ancora più bizzarre, si potrebbe dire, quando provenienti da sedicenti studiosi ebrei, e perfino israeliani.

Ne parleremo la prossima puntata.

 

Francesco Lucrezi, storico

(continua)