LA QUESTIONE EBRAICA 48 Degiudaizzare
Nel suo grande libro su La questione ebraica nella società postmoderna, Emanuele Calò affronta un tema particolarmente complesso e delicato, trattato in un paragrafo intitolato La degiudaizzazione del Cristianesimo (e di Israele).
Lo studioso dedica alcune acute considerazioni all’antica questione del complesso e ambiguo rapporto tra ebraismo e cristianesimo. Una relazione, com’è noto, intrinsecamente problematica, in quanto segnata da molteplici fattori, difficilmente armonizzabili tra loro: derivazione-collegamento-parentela-antagonismo-conflitto. Una polivalenza e contraddittorietà ben sintetizzata dal titolo di un famoso libro del grande Elio Toaff, per decenni indimenticabile Rabbino capo della Comunità di Roma: Perfidi Giudei, fratelli maggiori. Per secoli nella preghiera del Venerdì santo i cattolici di tutto il mondo hanno generosamente pregato anche pro perfidis Iudaeis (e lo fanno ancora, sia pure “sotto voce”, dopo una breve interdizione, nella messa recitata in latino, nuovamente accettata come forma canonica di culto). Ma quei “perfidi Giudei”, nella storica visita nel Tempio Maggiore di Roma di Papa Giovanna Paolo II, accolto da Toaff, furono dal pontefice definiti “fratelli maggiori” dei cristiani. Sono ancora, agli occhi della Chiesa e del popolo cristiano, “perfidi giudei”? sono ancora “fratelli maggiori”? O sono entrambe le cose? E, in caso di risposta affermativa, possono essere entrambe le cose contemporaneamente, o devono essere l’una o l’altra a seconda dei mutevoli umori del momento? Magari a giorni alterni?
La questione è oltremodo intricata, perché è connessa a molteplici aspetti teologici, storici, psicologici, identitari. E credo che si possa dire che l’ambiguità – così come l’opacità, la fluidità, la poliedricità – della stessa debba essere considerata un elemento intrinseco e ineliminabile della sua stessa esistenza. La collocazione dell’ebraismo nella teologia cristiana, come anche nella percezione popolare del popolo cristiano, non potrà mai essere risolta in un modo chiaro, limpido, definitivo. Resterà per sempre opaca, sfuggente, mutevole, fintanto che le due religioni – o una di esse – continueranno ad esistere. Nel grande mosaico del cristianesimo la tessera dell’ebraismo non troverà mai uno spazio adatto in cui essere esattamente e pacificamente incastrata.
“Vi è in Italia – scrive Calò – un meraviglioso presepe vivente in un bellissimo paese italiano, arroccato su un pinnacolo a traforare le nubi, pagina strappata a tutte le fiabe, che quando lo si visita non reca la benché minima traccia dell’ebraismo di Gesù. Potrebbe sembrare una distorsione precettiva, finché non si legge sul sito del Presepe che vi si raffigurano un suq arabo, insediamenti beduini, un Castrum romano, ma degli ebrei non vi è cenno, se non in un’isolata sede. È legittimo il dubbio che si potesse fare altrimenti, ad esempio con una Menorah (il candelabro ebraico)? La sola ricaduta positiva di questa omissione, sicuramente inconsapevole e chissà se evitabile o inevitabile, sarebbe quella di espungere ogni accusa di deicidio, poiché in questo caso gli ebrei non compaiono mai”.
L’autore non si addentra in questioni teologiche, né si arroga il diritto di dire cosa il cristianesimo sia o dovrebbe essere. Semplicemente, si limita a ricordare ciò che è scritto nei Vangeli, ossia che Gesù fu un ebreo figlio di madre e padre (sia pur, come si dice ‘putativo’), ebrei, discendente da re Davide, e che mai – pur nella violenta polemica contro gli scribi e farisei del suo tempo – pronunciò una sola parola da cui si potesse ricavare una sua volontà di abbandonare la fede dei suoi padri (“Non pensiate che io sia venuto ad abolire la Legge o i profeti”, “passeranno il cielo e la terra, prima che una singola ‘iota’ della Legge sia cambiata”). È perfettamente lecito, ovviamente, pensare che egli fosse il Figlio di Dio, ma “degiudaizzarlo” significa, semplicemente, negare non solo la radice, ma la stessa essenza del cristianesimo.
Chamberlain, ricorda Calò, nel suo I fondamenti del XIX secolo, si impegnò tenacemente in un’opera di “arianizzazione di Gesù”, sostenendo che gli abitanti della Palestina del nord, dalla Samaria in giù, non avessero una goccia di sangue ebraico, per concludere che “chiunque sostenga che Cristo fosse ebreo è ignorante oppure insincero”.
Certo, la Chiesa di oggi non si rifà certo alle farneticazioni di Chamberlain o di altri antisemiti come lui. Eppure, la questione della “degiudaizzazione di Gesù” non può dirsi superata.
Proseguiremo il discorso nelle prossime puntate.
Francesco Lucrezi, storico