Abbiamo iniziato a trattare, nelle scorse puntate della nostra ricognizione del libro di Emanuele Calò La questione ebraica nella società postmoderna, del difficile e controverso rapporto tra la sinistra e gli ebrei, e abbiamo detto che le molteplici declinazioni del vasto concetto di “sinistra” si possono complessivamente inscrivere in due grandi categorie in cui tale nozione può essere divisa:
una, decisamente maggioritaria, naturaliter ostile all’ebraismo, l’altra, da sempre minoritaria, naturaliter simpatizzante e favorevole.
Avendo già trattato della prima categoria, veniamo ora alla seconda. Essa è sempre stata oggetto, da parte della prima, di sistematico dileggio e disprezzo, come espressione di una sorta di “connivenza col nemico” dovuta a stupidità, paura o complicità. “Socialdemocratico” è stato a lungo sinonimo di “cretino”, “pavido”, “traditore”. In un lungo incontro tra i vertici del PCI e quelli del PCUS, a Mosca, dopo l’instaurazione della legge marziale in Polonia nel 1981 e il conseguente “strappo” dei comunisti italiani, i compagni nostrani furono duramente rimproverati dai padroni di casa per essersi fatti contagiare dal “cretinismo socialdemocratico”.
Eppure, se per la sinistra marxista e totalitaria parlare di “socialismo liberale” è stato a lungo un ossimoro, proprio nell’incontro tra questi due valori si cela la base fondante di una società che voglia veramente coniugare diritti e sicurezza, welfare e libertà, giustizia e progresso.
Ma perché il socialismo liberale deve, o dovrebbe, essere filoebraico?
Essenzialmente per due motivi.
Il primo è di ordine generale, perché è consustanziale al pensiero liberale l’esigenza della difesa di qualsiasi forma di pensiero, di religione, di tradizione che sia rispettosa delle regole della comune convivenza. È questo il senso profondo della lezione di Piero Gobetti, Luigi Einaudi, Benedetto Corce, e, prima ancora, di Filangieri, Jefferson, Adams. Ma ciò, ovviamente, non può riguardare solo l’ebraismo, essendo un principio valevole erga omnes ed erga omnia. Un liberale non può e non deve essere filo-ebraico più di quanto non sia filo-luterano, filo-induista o filo-ateo. Si potrebbe quindi dire che, in questo caso, non si tratterebbe tanto di “simpatia” o “solidarietà”, quanto piuttosto di “neutralità” o “laicità”. Ma la famosa sentenza n. 203 della Corte Costituzionale, in materia di laicità dello stato, redatta nel 1989 dal grande giurista Francesco Paolo Casavola, chiarisce che il concetto di laicità non vuol dire “indifferenza”, quanto impegno attivo dello stato a
permettere che ciascuno possa liberamente praticare la propria fede (o “non fede”), e debba sempre essere tenuto al riparo da qualsiasi forma di coercizione o restrizione.
Il secondo motivo deriva invece specificamente dalla peculiare tradizione storica dell’ebraismo, nel quale i doveri di assistenza ai più bisognosi (orfani, vedove, leviti…) è scolpito nelle mitzvòt bibliche, così come la millenaria tradizione della dialettica rabbinica – che ha bisogno, per sua natura, di dibattito, confronto, contraddizione, e nella quale neanche la più schiacciante maggioranza può dirsi certa di “avere ragione” – ha creato una vera e propria idiosincrasia verso il pensiero unico.
Ed è sempre l’ebraismo che ha creato, per la prima volta al mondo, l’esperienza di un socialismo estremamente avanzato (a volte, un vero e proprio comunismo), ma sempre all’insegna dell’assoluta libertà individuale di adesione. Ci riferiamo alla straordinaria esperienza dei kibbutzìm, che hanno permesso, tra immense difficoltà, di ridare vita alla terra d’Israele, seguendo alla lettera il principio
socialista “da ciascuno secondo le sue possibilità, a ciascuno secondo i suoi bisogni”. Con la piccola, enorme differenza, rispetto al “socialismo reale”, che le porte del kibbùtz erano e sono sempre aperte, in entrata e in uscita. Nessuno è costretto a entrare o a restare. E l’esperienza del
kibbùtz non nasce dal nulla: è erede delle forme di autogestione praticate per secoli in migliaia di Comunità ebraiche della diaspora, anche prima della caduta del Secondo Tempio, ad Alessandria come a Smirne, a Roma come a Baia. Condivisione, aiuto reciproco, senso di comunità. Ma senza costrizione, senza nomenklatura.
In questo senso, l’ebraismo ha fornito al mondo un esempio concreto di come sia possibile conciliare socialismo e libertà. Israele è stato la culla del socialismo, di quello vero (anche se quello spirito, purtroppo, sta gradualmente venendo meno). E ha anche fornito un esempio di come sia possibile preservare degli spazi di libertà in sistemi totalitari. Le Comunità ebraiche erano gli unici luoghi, nell’Italia fascista, in cui si votava.
Per questo la sinistra liberale e democratica non può non essere filo-ebraica. Si tratta non tanto di un debito di gratitudine, ma di una questione di parentela. E non ho mai apprezzato il fatto che tale sinistra sia generalmente definita “moderata”, in quanto tale aggettivo ha in sé un elemento di “incompletezza”, di “timidezza”, di “annacquamento”. Non è un complimento dire di qualcuno che è “moderatamente intelligente”, di un politico che è “moderatamente onesto”, di un coniuge che è “moderatamente fedele”. Chiamiamola “sinistra buona”.
Francesco Lucrezi, storico (continua)