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LA QUESTIONE EBRAICA XXXVI. Gli ultimi giorni

LA QUESTIONE EBRAICA. XXXVI Gli ultimi giorni.

 

Abbiamo iniziato ad affrontare, nel nostro commento al libro di Emanuele Calò La questione ebraica nella società postmoderna, l’atteggiamento di Karl Marx nei confronti dell’ebraismo (improntato, come abbiamo visto, al più assoluto disprezzo), e anche, più in generale, la possibile concezione del marxismo come una sorta di grande e violenta “eresia” della religione ebraica, che avrebbe sedotto e conquistato grandi masse di israeliti, ormai stanchi di aspettare la venuta del Messia – che, evidentemente, tardava un po’ troppo ad arrivare -, e perciò decisi a realizzare da soli, qui e ora, il mondo futuro.

Su questo punto, si può senz’altro azzardare un paragone tra Marx (quale fondatore di una religione ‘eretica’) e San Paolo, anch’egli, certamente, fondatore di una nuova religione, che può anch’essa essere considerata una sorta di grande ‘eresia’ dell’ebraismo.  Ricordiamo che per molti decenni, verso la fine del primo secolo d.C., in Asia Minore, molti seguaci di Paolo adoravano Cristo, ma non ritenevano affatto di essere fuoriusciti dall’ebraismo, tanto che le loro comunità venivano chiamate dei “giudeo-cristiani”.

Un punto fondamentale che accomuna i due pensatori è la loro concezione escatologica della storia, da “ultimi giorni”: il cambiamento radicale non è confinato in un futuro lontano e incerto, ma sta per avvenire proprio nei tempi da loro vissuti. Paolo dice esplicitamente che il Messia tornerà in quella generazione, e per Marx il momento del crollo totale del capitalismo è assolutamente maturo. Si tratta di attendere pochi anni, forse pochi mesi. E allora, se è così, che senso ha impegnarsi a migliorare un po’ un mondo che sta per dileguarsi definitivamente? Dal loro punto di vista, avevano entrambi ragione: sarebbe senza senso perdere tempo a pulire i pavimenti del Titanic che sta affondando.

Perciò Paolo dice che gli schiavi non devono impegnarsi a cambiare la loro condizione: ognuno deve attendere il Messia nello stato in cui si trova, presto saremo tutti, liberi e schiavi, “liberti del Signore”, e quindi tutti uguali.

Nel modo in cui questa concezione si applica nei confronti dell’ebraismo, però, c’è una radicale differenza.

Paolo rivendica con orgoglio la sua origine farisaica, e la propria doppia nazionalità, ebraica e romana. Il Messia è il discendente di re Davide, colui che porta a complimento una tradizione già santa. Il cristianesimo è il ramo di olivo selvatico che acquista la sua santità per essere stato innestato su un olivo santo. Certo, Gesù è superiore a Mosè, ma non perché Mosè abbia sbagliato, ma solo in quanto il figlio di Dio ne porta a compimento l’operato. Siamo negli ultimi giorni, e, come scritto nella lettera ai Galati, presto scomparirà ogni differenza: non ci sarà più né libero né schiavo, né ebreo né gentile, né maschio né femmina. Non ha più senso essere ebrei, ma non è certo un disonore esserlo, o esserlo stati, così come non è certo un disonore essere maschi o femmine. Nelle parole di Paolo non c’è alcun antisemitismo (che sarebbe venuto dopo, con Marcione, Origene, Giovanni Crisostomo, Tertulliano, Lattanzio, Agostino, Ambrogio e tanti altri), le uniche parole di disprezzo da lui pronunciate sono riservate alle donne, non agli ebrei.

Nel mondo nuovo che sta per arrivare gli ebrei avranno un posto evidentemente privilegiato, in quanto appartenenti al popolo della “santa radice”. Quanto all’idea che essi possano non riconoscere il Messia, Poalo non se la pone mai: quanto tornerà (domani, o dopodomani), tutti lo vedranno. E gli ebrei, nel mondo nuovo, potranno felicemente continuare ad adorare il Dio dei loro padri.

La visione di Marx è completamente diversa. Che posto potrebbe mai trovare, nel mondo nuovo, gli adoratori del dio denaro, per sempre abbattuto e gettato nella polvere? Come potranno mai riciclarsi, convertirsi, riadattarsi? Dovrebbero cancellare ogni forma di memoria, ogni minima traccia delle loro radici, ogni pallida ombra della loro storia, del loro passato, della loro identità. Non potranno vivere, nel mondo futuro, semplicemente staccandosi dalle sue radici, dimenticandole. Dovranno maledirle, infangarle, distruggerle, bruciarle.

Come scelse di fare Marx, “il nipote del rabbino”. Che, però, nonostante tanto inutile sforzo, continuerà a essere ricordato, nel Mein Kampf, semplicemente come “l’ebreo Karl Marx”.

 

Francesco Lucrezi, storico

(continua)