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LA QUESTIONE EBRAICA NELLA SOCIETA’ POSTMODERNA. XXXIII. L’idolo

LA QUESTIONE EBRAICA NELLA SOCIETÀ POSTMODERNA XXXIII. L’idolo

 

Abbiamo iniziato a trattare, nella scorsa puntata del nostro commento al grande libro di Emanuele Calò La questione ebraica nella società postmoderna, dell’influenza esercitata dal pensiero di Karl Marx sull’evoluzione dell’ebraismo moderno e, soprattutto, sui rapporti tra l’ebraismo e il mondo a esso circostante. Nonostante il padre di Marx, figlio di un rabbino, si fosse convertito al luteranesimo (data l’annessione della Renania alla Prussia, e la conseguente perdita, da parte degli ebrei, dei diritti che aveva loro accordato Napoleone), e nonostante il filosofo abbia sempre dimostrato, per tutta la vita, nei confronti dell’ebraismo, un atteggiamento improntato a un costante, profondo disprezzo, non c’è dubbio sul fatto che l’impronta delle sue radici familiari e culturali, nel suo pensiero, è fortissima. Calò ricorda il giudizio di Paul Johnson, secondo cui egli sarebbe stato un pensatore ebreo “antiebraico” (il che non deve suscitare stupore, ce ne sono stati tanti: i più abili inquisitori nei processi contro i marrani erano ebrei convertiti, abili a smascherare le contraddizioni degli imputati, e, quanto al giorno d’oggi, non c’è bisogno di fare nomi), e sottolinea il carattere “messianico e apocalittico” della sua visione, imbevuta di “un’aura profetica, improntata alla rivelazione”.

Molto interessante l’annotazione di Popper, riportata da Calò, secondo cui l’utopia di Marx, così come quella di Platone, avrebbe avuto anche un fondamento estetico: “sia Platone che Marx sognano una rivoluzione apocalittica che trasfigurerà in modo radicale l’intero mondo sociale. Questo spazzare via, questo estremo radicalismo dell’approccio platonico (così come di quello marxista) è, penso, collegato al suo esteticismo, ossia al desiderio di costruire un mondo che non solo sia migliore e più razionale del nostro, ma che sia libero di tutta la sua bruttezza: non una sciocca coperta, un vecchio vestito malamente rattoppato, bensì un abito tutto nuovo, un nuovo mondo realmente bello”.

Senonché, sognare un mondo “più giusto” è, direi, non solo possibile, ma addirittura doveroso. Chi non lo fa è cinico, indifferente, disfattista, se non, magari, amante dell’ingiustizia. E si può anche sognarlo “più bello” (anche se bisognerebbe intendersi sul concetto di bellezza), ma cercare di mettere in pratica questo desiderio può essere – la storia insegna – molto, molto pericoloso.

Comunque, non c’è dubbio che l’utopia “estetica, messianica e apocalittica” di Marx, ebraica o antiebraica che sia stata, ha fatto moltissimi adepti, in gran parte tra gli appartenenti a quell’inquieto popolo da cui il pensatore proveniva, e le cui tracce sembrava volere strappare dalla propria persona con vera e propria ripugnanza. Egli, ricorda Calò, rivolgeva come un insulto l’appellativo di ebreo a chiunque potesse (tranne, ovviamente, a sé stesso) e gli fosse, per qualche ragione antipatico: quella di Feuerbach sarebbe stata una “raffigurazione sordidamente giudaica”, e nelle sue pagine leggiamo dell’“ebreo Steinthal, il porco di un giornalista berlinese…”, di “un ebreo chiamato Meier, Ramsgate è pieno di pidocchi e di ebrei, il suo medico è chiamato ebreo per quanto tiene a farsi pagare, Bamberger fa parte della sinagoga parigina della Borsa, Lasalle ha una testa e dei capelli dei neri che si unirono a Mosè all’uscita dall’Egitto” ecc. ecc.. Naturalmente, si sarebbe ben guardato da definire così sé stesso: ma era inevitabile che altri poi lo facessero, come, per esempio, Bakunin e, soprattutto, Hitler.

Comunque, al di là delle doti intellettuali, il nostro doveva esercitare una grande capacità di seduzione. Il suo compagno di studi Moritz (poi Moses) Hess, più avanti di lui negli anni, ne rimase folgorato, e così lo descrive in una lettera al suo amico Auerbach, del 1941: “Il mio idolo si chiama dottor Marx, ed è ancora giovane, 24 anni appena. Sarà lui a dare il colpo di grazia alla religione e alla politica medioevali. Egli riveste in uno spirito mordace la sua profondità filosofica. Immagina Rousseau, Voltaire, Lessing, Heine e Hegel riunti in una persona sola, e avrai Karl Marx”.

Come ringraziò, l’“idolo”, il suo grande ammiratore (veramente grande, padre nobile del sionismo)?: “Disprezzandolo – ricorda Litvinoff, ne La lunga strada per Gerusalemme – e mettendolo alla berlina”. Un profeta (l’ultimo, l’unico, il vero profeta) non ha certo bisogno di essere idolatrato.

 

Francesco Lucrezi, storico

(continua)