Vai al contenuto

LA QUESTIONE EBRAICA XXVIII. La colpa

LA QUESTIONE EBRAICA XXVIII. La colpa.

 

Nella scorsa puntata della nostra ricognizione intorno al libro di Emanuele Calò La questione ebraica nella società postmoderna, a proposito del caso Dreyfuss, ho avuto modo di soffermarmi sul peculiare concetto di ‘colpa’ proprio dell’antisemitismo. Tale fenomeno, ho detto, non ha alcun bisogno di alcuna vera ‘colpa’ degli ebrei per scagliarsi contro di loro, perché è esso stesso a produrre la colpa immaginaria di cui si nutre. Anzi, paradossalmente, un ebreo ‘veramente’ colpevole interessa molto di meno, perché vanifica quel processo di incessante “colpevolizzazione immaginaria” che è l’essenza dell’antisemitismo.

Calò riporta, al riguardo, un episodio estremamente eloquente e poco conosciuto. Due anni dopo che Dreyfuss era stato pienamente assolto dalla Corte di Cassazione, reintegrato nei ranghi dell’esercito e insignito della Legion d’Onore, il 4 giugno 1908, in occasione della traslazione delle ceneri di Zola, cerimonia a cui partecipò lo stesso ufficiale, un giornalista antisemita, Louis Grégori, gli sparò due colpi di pistola, senza tuttavia riuscire a ucciderlo, ma soltanto ferendolo a un braccio. Processato per tentato omicidio, asserì di non avere inteso colpire la persona, ma, più genericamente, ciò che rappresentava, ossia il “dreyfusismo”, e, incredibilmente, fu anche assolto.

La vicenda ricorda singolarmente quella di Salman Rushdie, lo scrittore indiano colpito dalla “fatwa” di Khomeini per avere scritto un libro giudicato (del tutto a torto) offensivo del Corano: ogni musulmano del mondo sarebbe stato incaricato, per sempre, di eseguire l’ordine di ucciderlo. Costretto a vivere per decenni, giorno e notte, sotto la continua sorveglianza di una scorta armata, tenendo sempre segreti i propri itinerari di spostamento, Rushdie fu comunque raggiunto, due anni fa, da un assalitore armato di coltello, che riuscì a eludere la sorveglianza e a colpirlo, ferendolo gravemente e provocandogli anche la perdita di un occhio. Gli ayatollah iraniani, a seguito di lunghe trattative sottobanco, avevano decretato che la fatwa – pur non potendo essere giuridicamente revocata – non era più da considerarsi efficace, ma ciò, evidentemente, non bastava, così come non era bastata la riabilitazione di Dreyfuss. Qualche zelante esecutore si trova sempre, sarebbe strano il contrario.

Dreyfuss poteva anche essere personalmente innocente, ma la sua ‘colpa’ di essere ebreo, e di avere dato nell’occhio in quanto tale (il suo “dreyfusismo”) restava. Sarebbe rimasta al di là di ogni assoluzione, e perfino al di là della sua morte: “il patriottismo della famiglia – scrive Calò – non finisce con Dreyfuss; una sua nipote, Madeleine Lévy, combattente della Resistenza, è catturata dai nazisti nel 1943 e deportata ad Aushwitz, dove morirà”. Si tratta, evidentemente, di un patriottismo particolare, alquanto doloroso.

In realtà, Dreyfus fu sottoposto a due distinti processi: uno celebrato con le regole del diritto, che, come ogni processo, poteva concludersi con una assoluzione o una condanna, giusta o ingiusta che fosse. E, come sempre accade, nessuna sentenza pone mai fine ai dubbi, ai sospetti, alle recriminazioni. Molto spesso la gente è portata a pensare che chi è dichiarato innocente sia in realtà colpevole, e viceversa.

Ma egli fu anche vittima di un distinto processo, che è lo stesso del Signor K di Kafka. Un processo dove non c’è nessuna accusa, e quindi nessuna difesa, ma soltanto una colpa. E una colpa senza accusa e senza difesa non potrà mai essere eliminata. Graverà sulla testa del colpevole, come una spada di Damocle, anche per lunghi anni. E potrà anche accadere che il colpevole finisca i suoi giorni senza incontrare l’esito ineluttabile del processo, pur avvertendo sempre l’ombra della spada sulla propria testa. Così come potrà accadere che la condanna vada a colpire una persona diversa da quella del primo imputato, come dimostra la sorte di Madeleine Lévy, anch’ella condannata a espiare una colpa che non richiede dimostrazione, né ammette confutazione.

 

Francesco Lucrezi, storico

(continia)