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LA QUESTIONE EBRAICA XX. Santificare

LA QUESTIONE EBRAICA XX. Santificare

 

Abbiamo trattato, nelle scorse puntate del nostro commento al libro di Emanuele Calò La questione ebraica nella società postmoderna, della questione, affrontata dallo studioso, dell’atteggiamento di Pio XII di fronte alla razzia del XVI ottobre. Un problema, com’è noto, che va ben al di là del mero giudizio storico, in quanto investe il complesso e delicato processo del cd. dialogo ebraico-cristiano, che, a partire dal Concilio Vaticano II (ma già avviato, pionieristicamente, in alcuni ristretti ambienti, subito dopo la fine della guerra), è stato promosso, da esponenti delle due confessioni, per cercare di colmare l’enorme divario – emotivo e psicologico, più che teologico – creato da lunghi secoli di pregiudizio, ostilità e persecuzioni. Un processo che, indubbiamente, ha segnato dei passi positivi, ma ha incontrato e incontra anche notevoli resistenze, e che sta subendo, ai giorni nostri, indubbiamente, un notevole arretramento (di cui la guerra in Medio Oriente non è certo la causa, ma il pretesto, o, magari, la cartina di tornasole).

È importante chiarire che non è tanto l’operato del papa, ossia ciò che ha fatto (e soprattutto non ha fatto), a pesare sulle relazioni ebraico-cristiane, perché a interessare dovrebbe essere soprattutto il presente e il futuro, senza fossilizzarsi sul passato. L’atteggiamento della Chiesa nei confronti degli ebrei è stato quello che è stato, se il presupposto del dialogo fosse la finzione che tra le due fedi ci siano sempre stati rispetto e amicizia è evidente che non ci sarebbe proprio niente di cui parlare. Né, come ho già detto, sarebbe fruttuoso intendere il dialogo come un continuo atto di contrizione da parte della Chiesa.

Quello che incide è il giudizio che oggi si dà dell’azione del Vaticano in quei tempi oscuri. Ed è evidente che, da parte ebraica e da parte cristiana, questo giudizio, per quanti equilibrismi e tatticismi si vogliano usare, non potrà (e io direi anche “non dovrà”) mai coincidere. Anni fa pare che lo Yad Va-Shem, il Museo della Shoah di Gerusalemme, su sollecitazione di ambienti ecclesiastici, avrebbe modificato alcune didascalie dedicate a Pio XI, smussando talune critiche rivolte al Pontefice. Mi permetto di ritenere che, se così è stato, è stato un errore. La storia può essere, ovviamente, oggetto di valutazioni diverse, ma mai di ‘trattative’ o ‘scambi’ di tipo tattico o diplomatico. E nessuno è proprietario della memoria dei martiri, neanche lo Yad Va-Shem.

Ma a pesare, com’è noto, è il processo di canonizzazione di Pacelli, il cui esito positivo, elevando all’onore degli altari un papa ritenuto, a torto o a ragione, discutibile per il suo atteggiamento di fronte allo sterminio, rappresenterebbe un segnale fortemente negativo sul piano dell’amicizia (ma io preferisco usare la parola “rispetto”) tra ebrei e cristiani. Difficile essere amico di chi mostra di tanto apprezzare chi avrebbe avuto pesanti responsabilità nei confronti del tuo popolo.

Da parte del mondo cattolico, oltre a difendere il papa dalle accuse, ritenute infondate, e a rimarcare invece i suoi meriti (quale quello di avere avallato la protezione accordata a molti ebrei in conventi e istituti cattolici), si è anche puntualizzato che il riconoscimento delle “virtù eroiche” che conduce alla santificazione non implica una totale approvazione dell’intera esistenza del soggetto santificato: neanche un santo può essere sempre perfetto.

Il processo, quindi, oggetto di particolare attenzione, è in “stand by”, e non se ne conosce l’esito. Una ‘promozione’ sarebbe imbarazzante e l’ipotesi ‘bocciatura’, ovviamente, non esiste. Meglio aspettare. Per quanto?

Devo dure, al riguardo, che la vicenda mi interessa piuttosto poco. Non sappiamo quando il processo di chiuderà, ma l’esito è già scritto: Pio XII (che è già venerabile) sarà santo.

Sarà, questo, un ennesimo inciampo o arretramento sulla via del dialogo?

Io – pur essendo molto scettico sui progressi di questo percorso di riavvicinamento – non lo credo, in quanto la santificazione di Pio XII si inserisce all’interno di un generale processo di “santificazione” di sé stessa che la Chiesa porta avanti con evidenza negli ultimi decenni, e che vuole che tutti i moderni successori di san Pietro abbiano rapidamente il loro posto sugli altari.

I meccanismi che presiedono alla beatificazione o santificazione, com’è noto, sono complessi e rispondono a mutevoli dinamiche teologiche e politiche. Nei secoli passati solo alcuni dei pontefici raggiungevano tale obiettivo, e sempre molto tempo dopo la morte. Ma, nei tempi recenti, si assiste a un’evidente estensione e accelerazione, che dà l’idea che sia lo stesso soglio pontificio, indipendentemente da chi lo abbia occupato, a essere proclamato santo, nei tempi più brevi possibili: tutti i successori del venerabile Pio XII sono già santi (Giovanni XXIII, Paolo VI, Giovanni Paolo II) o beati (Giovanni Paolo I, penalizzato dalla brevissima durata del suo regno), e l’ultimo pontefice scomparso (Benedetto XVI) lo diventerà certamente presto. Arrestare il processo di canonizzazione di Pacelli allo stato di semplice venerabile equivarrebbe a un giudizio di riprovazione, e non potrà avvenire.

Questa santificazione, perciò, non ha un significato antiebraico, e deve restare un affare interno alla Chiesa, di cui gli ebrei farebbero bene a non prendersi cura. Le difficoltà, sul piano del dialogo, sono altre, e sono molto pesanti.

Quanto al giudizio sull’operato di Pio XII – fuori da qualsiasi logica ‘processuale’ e, tanto più, teologica o spirituale – farò qualche breve considerazione nelle due prossime puntate.

 

Francesco Lucrezi, storico

(continua)