LA QUESTIONE EBRAICA XVIII. Festeggiare
Nelle scorse puntate del mio commento al libro di Emanuele Calò La questione ebraica nella società postmoderna, a proposito dell’espugnazione di Porta Pia, nel 1870, ho sollevato tre domande: Come sarebbe stata la storia degli ebrei del Ghetto di Roma, se non si fosse verificato quell’evento, che determinò la fine di quello stato pontificio di cui, da tempo immemorabile, erano sudditi (certo non cittadini)? Come sarebbe la storia d’Italia, senza che la riunita nazione avesse Roma come capitale? E, infine, come sarebbe stata la storia della Chiesa, se la stessa non avesse perso il suo antico potere temporale?
Dopo avere risposto, nelle due scorse puntate, alle prime due domande, affrontiamo ora la terza.
La risposta è assolutamente semplice e univoca, eppure, stranamente, in certi ambienti – proprio là dove sarebbe più utile, o necessaria – non si ascolta mai.
Pare opportuno chiarire, innanzitutto, che sarebbe un grave errore retroproiettare l’immagine odierna della Chiesa sui secoli passati, pensando che la stessa abbia sempre svolto, nei secoli, una missione, più o meno, uguale. Niente di più errato.
Dal secondo dopoguerra (ma soprattutto dalla fine degli anni ’50, dopo la fine del pontificato di Pio XII) si è andata infatti affermando, in modo gradualmente crescente, una vocazione universalistica della Chiesa, in forza della quale essa parlerebbe a tutti i popoli del mondo, senza nessuna priorità o preferenza. Ciò, naturalmente, non è ancora vero, come è sotto gli occhi di tutti. Una sciagura verificatasi in Italia, per esempio, riceve certo un’attenzione, da parte del Sommo Pontefice, cento volte superiore rispetto a un disastro, anche di maggiori dimensioni, accaduto, per esempio, nel Caucaso o in Patagonia. Ma se dovese scoppiare una guerra tra l’Italia e il Caucaso, o la Patagonia, il Vaticano, almeno ufficialmente, non si schiererebbe.
Prima, come tutti sanno, non è mai stato così. Il papa aveva un proprio stato, un proprio esercito, le sue strategie politiche, alleanze diplomatiche e militari. Le guerre non solo le appoggiava e le approvava, ma le combatteva con i propri soldati, per ragioni che avevano a che fare con tutto tranne che con la religione (o, meglio, per le quali la religione non era che un mero pretesto). E anche tra gli apparenti “alleati” cristiani la fratellanza era alquanto relativa. Nelle famose guerre contro i turchi, per esempio, la storia insegna che i veri nemici di Roma non erano tanto i terribili musulmani, ma proprio le corti “amiche” di Venezia, Genova, Vienna ecc., con le quali il successore di Pietro si contendeva posizioni di potere e di primato. E qualcuno può forse sostenere che, anche dopo il 1970, il Vaticano sia stato davvero “super partes”? Lo fu forse durante la Grande Guerra? O in occasione del successivo conflitto mondiale, in cui spavaldamente entrò quello che Pio XI definì “l’uomo della Provvidenza”?
Acqua passata, d’accordo. Ho sempre pensato e detto che non sarebbe un atteggiamento costruttivo pretendere dal Vaticano un continuo atto di contrizione e un incessante “mea culpa”. Ma la domanda è questa: se la Chiesa cattolica ambisce davvero a essere “universale”, perché non riconosce come un evento benefico, salvifico, rigenerante la breccia di Porta Pia? Perché non annovera questa data come un vero e proprio “natale” della Chiesa, analogo alla consegna delle sacre chiavi a San Pietro da parte di Gesù, e opposto, in quanto tale, all’inizio della triste storia del potere temporale ecclesiastico, che – se ha arrecato tanti danni, in tante direzioni – ha innazitutto sfiregiato, per secoli, la credibilità morale della Chiesa stessa?
Ciò è stato detto con parole memorabili e lapidarie, che non richiedono particolari interpretazioni. Non sono di un ateo, né di un comunista, un ebreo, un islamico, un anarchico, un massone o cose del genere: “Ahi Costantin, di quanto mal fu matre,/ non la tua conversion, ma quella dote,/ che da te prese il primo ricco patre!”.
Credo che non ci sia bisogno di dire il nome di chi scrisse questi versi. Un uomo che, purtroppo per lui, non poté vedere Porta Pia, ma per la quale si può essere certi che avrebbe festeggiato. Perché non festeggia, sia pure in ritardo, la Chiesa?
Francesco Lucrezi, storico
(continua)