Vai al contenuto

Rapporti anfibologici fra antigiudaismo e antisemitismo

Abstract:  It has been written that in some circles it seems that it is difficult to accept the Jewish origin of Christianity. Perhaps it is not an explicit anti-Judaism, but a creeping, no less dangerous form of it. On the basis of this interesting comment, some brief reasoning arises around its roots and consequences.  

Giulio Mariotti (Non solo antisemitismo: l’antigiudaismo, Il Mulino, 28/2/2023) asserisce che nel mondo vi sono collaborazioni tra studiosi ebrei e cristiani, e cita  Mark Nanos, Paula Fredriksen e Gabriele Boccacini, facendo presente la loro mancata traduzione oppure la loro mancata considerazione. Al riguardo, adombra l’ipotesi che in alcuni ambienti, anche accademici, in particolare di tipo confessionale, si stenti ad accettare l’origine giudaica del cristianesimo. Nel ‘catenaccio’ si legge: “in alcuni ambienti sembra che si faccia fatica ad accettare l’origine giudaica del cristianesimo. Forse non è un antigiudaismo esplicito, ma una sua forma strisciante, non meno pericolosa”. L’antisemitismo, per  Mariotti, sarebbe l’odio razziale per il popolo e la cultura ebraici, mentre l’antigiudaismo consisterebbe nell’ostilità, principalmente di matrice cristiana, fondata su teorie teologiche e alimentata da pregiudizi verso la religione ebraica. Invero, nella distinzione classica il primo sarebbe antisemitismo razziale e il secondo sarebbe antisemitismo religioso, ma le classificazioni sono sufficientemente opinabili da consentirmi di assumere l’onere (diciamo) di avere o poter avere torto.

Ora, se andassimo a reperire e sfogliare la bibliografia degli studiosi dianzi evocati, vedremmo che Boccaccini scriveva che per capire appieno Cristo, bisognava  accostarsi allo studio dell’ebraismo del Secondo Tempio (Gabriele Boccaccini, A Historian’s Response, CrossCurrents, vol. 53, no. 2, 2003, p. 270 ss.). 

Mark Nanos, anch’egli citato da Mariotti, scrive che “se il motivo della gelosia in Romani deve avere un senso, ciò richiede una ambientazione sociale che prevede contatti regolari con veri ebrei, molto probabilmente in posizioni di autorità. Tra questi ebrei ci devono essere alcuni che Paolo caratterizza come …. ebrei che, a differenza di Abramo, stanno diventando deboli nella fede (4:19- 21), che non sono in grado di credere nel “seme”. …. La lettera che Paolo scrive ai Romani offre all’interprete moderno testimonianze letterarie del pensiero di Paolo e dell’ambiente sociale del romano credenti in Cristo, prima della separazione delle strade tra il giudaismo e il cristianesimo, prima che i credenti in Cristo agissero formalmente al di fuori del identità e giurisdizione della sinagoga..” (Mark D. Nanos, The Jewish Context of the Gentile Audience Addressed in Paul’s Letter to the Romans,  The Catholic Biblical Quarterly, vol. 61, no. 2, 1999, p. 283 ss.; id, The Mistery of Romans: the  Jewish Context of Paul’s Letter, 1996 e, a p. 333, i precetti noachidi). 

Infine, l’anzidetta Friedriksen scrive che “ciò che chiamiamo “cristianesimo” è post-paolino – anzi, probabilmente, è persino antipaolino. Se vogliamo comprendere il vangelo di Paolo, e Paolo stesso, nel suo contesto, lo interpreteremo…… non contro il giudaismo ma al suo interno(Paula Fredriksen. “How Jewish Is God? Divine Ethnicity in Paul’s Theology.” Journal of Biblical Literature 137, no. 1 (2018), p. 193 ss.).

Non che io sia sorpreso né da quanto paventa Mariotti né dai riscontri bibliografici, perché la questione l’avevo già notata, al punto di dedicarle un non minuto paragrafo, dal titolo “La degiudaizzazione del cristianesimo (e di Israele), in: Emanuele Calò,  La questione ebraica nella società postmoderna. Itinerari fra storia e microstoria, Prefazione di Ruth Dureghello, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 2023, p. 145 ss. , dove facevo diversi esempi ed asserivo che questa tendenza, che sembrerebbe urtare contro la stessa lettera dei Vangeli, contrasta anche con importanti documenti della Chiesa stessa. Sennonché è onesto ammettere che far propri certi passaggi dei Vangeli,  pone dinanzi a un bivio: se il cristianesimo è/fosse di origine ebraica (qui tale vieta terminologia diventa ammissibile) delle due l’una, o si considera che il cristianesimo abbia semplicemente imboccato una strada prevista dall’ebraismo portandosi dietro l’antico retaggio, oppure si crea una narrazione diversa, che lo renderebbe irriducibile a tale retaggio.  Il secondo caso non appare corretto alla luce dei Vangeli, ma è umanamente comprensibile. Non necessariamente tutti – tutti amerebbero sentirsi dire che Gesù è un Rabbino, come risulta testualmente ben tredici volte nei Vangeli. Questo non è un problema ebraico, almeno in tesi, bensì cristiano e merita attenzione e considerazione. Quando Nanos sostiene che il Nuovo Testamento va letto come un libro ebraico (op. ult. cit., p. 4) bisogna essere empatici, perché il mondo non inizia né finisce con e da noi. Quel che un ebreo può, senza mancare di rispetto, chiedere a un cristiano, è che la tesi adottata, quale che essa sia, non si dimostri incoerente con l’elevatezza morale alla quale si aspira, sfociando nel disprezzo di coloro dai quali si prendono le distanze. La coerenza è un gran difetto, che però spesso dovrebbe essere perdonato, quando ne deriva un gran bene.