PESSIMISMO 4 American Nightmare
Tra i motivi del mio pessimismo, uno dei più grandi è certamente dato da quella che considero una vera e propria malattia degli Stati Uniti d’America. Ed è anche uno dei più dolorosi, per chi ha sempre amato e continua ad amare quel grande Paese, che per tante generazioni ha rappresentato un simbolo di libertà, spirito di intraprendenza, avventura, capacità di immaginazione.
Chi, come me, è rimasto sempre un po’ bambino, continua a commuoversi leggendo le toccanti parole della poesia The new Colossus, incise alla base della Statua della Libertà, con cui la poetessa ebrea Emma Lazarus sintetizzò in modo mirabile l’essenza dell’American dream: “Tenetevi, o terre antiche, la vostra storica pompa! Datemi i vostri poveri, i vostri affannati, le masse derelitte che anelano a vivere libere…”. Un sogno che, ovviamente, è e deve essere anche una favola, un mito, che si intreccia a una “storia nera” fatta di violenza, schiavismo, sopraffazione e tante altre cose non edificanti. Ma lo spirito dell’America è soprattutto quello che chiede (diversamente da quanto, per secoli, hanno fatto le “terre antiche”) di lottare contro i propri stessi errori, in un processo di continua rigenerazione, che vede le giovani generazioni impegnate a superare le visioni dei padri, alla conquista di sempre nuove frontiere.
La bandiera a stelle e strisce è il simbolo di libertà e giustizia proprio perché esprime l’idea che tali ideali non potranno mai essere raggiunti una volta per sempre, ma saranno affidati al cuore, all’intelligenza e all’azione di ogni singolo americano, grande o piccolo che sia, il quale sarà chiamato, giorno per giorno, a cercare (anche, quando necessario, contro i suoi stessi governanti) “to make the dream come true”. La Terra Promessa americana non vuole essere raggiunta, ma vuole essere cercata, costruita, immaginata, così come quella “felicità” che la Costituzione degli Stati Uniti promette non già di elargire, ma di permettere a ogni cittadino di cercare di perseguire, con le proprie forze, la propria fiducia e il proprio coraggio.
Un sogno, già. Sappiamo che i sogni, al risveglio, svaniscono. Ma ci sono risvegli e risvegli. Capita anche, al risveglio, di avere l’impressione di essere capitati in un altro sogno. Ma stavolta si tratta di un ‘nightmare’, un incubo.
Mi sforzo sempre, nel formulare dei giudizi sulla realtà a me circostante, di essere prudente, rispettoso, di ricordarmi che le mie idee non sono quelle degli altri, e non è detto che siano migliori, anzi. Mi sforzo di non esprimere opinioni trancianti e apodittiche, di usare il beneficio del dubbio, di ricordarmi che la realtà è sempre prismatica, mutevole, opinabile. Mi ricordo quante volte ho cambiato idea io stesso, e quanto severo dovrei essere col me stesso anche di soli pochi anni fa, per non dire di quando ero ragazzo. Cerco sempre di distinguere tra le idee e le persone, mi sforzo di trovare un granello di positività – o di non negatività – anche in persone molto lontane da me (facendo eccezione solo per i razzisti, i terroristi e gli antisemiti). Forse non ci riesco, ma, in genere, ci provo.
Ma stavolta, mi dispiace, no. Nel contemplare l’ipotesi che un personaggio come Donald Trump possa tornare a fare il Presidente di quella che dovrebbe essere la più grande democrazia del mondo, dopo tutto quello che ha fatto e detto, mi vengono letteralmente i brividi. E il mio turbamento non viene meno neanche all’idea che potrà essere sconfitto, se penso che molte decine di elettori paiono comunque intenzionati a votarlo.
Uno che sostiene pubblicamente i suprematisti bianchi; che ha pronunciato più volte battute esplicitamente razziste (“mi auguro che l’America non abbia un Presidente di colore almeno per i prossimi due secoli”); che tratta pubblicamente i suoi elettori – con loro grande giubilo, sia chiaro – da idioti violenti e fanatici (“potrei sparare un uomo in piena giorno nella Quinta Strada, e non perderei un solo voto”: ma io lo correggo: li aumenterebbe); che insulta violentemente, ogni giorno, tutti gli avversari politici e i giudici che osano indagare su di lui; che ha apertamente incitato la folla al golpe; che ha sempre rifiutato, ancor prima delle elezioni, la sola ipotesi che lui potesse perderle, ritenendola assurda, offensiva e oltraggiosa; che, in un momento di gravissima crisi militare, invece di salvaguardare l’interesse nazionale, e della pace mondiale, sa solo puntare il dito contro il suo odiatissimo rivale, dicendo che è tutta colpa sua, strizzando l’occhio a quello che dovrebbe essere un nemico del suo Paese, ma a cui lui darebbe volentieri in pasto, invece, ben più della sola Ucraina, pur di raccattare anche un solo voto in più; che sa pronunciare solo parole di odio, astio, rabbia (“make America hate again”), con quel suo eterno ghigno truce e feroce, che pare studiato apposta per spaventare i bambini, o per farli ridere.
Qualcuno potrebbe ricordarmi che si dice amico d’Israele. Lo so. Il giorno della sua elezione, scrissi testualmente che, se avesse mantenuto solo una delle due promesse fatte in campagna elettorale in materia (spostare a Gerusalemme la sede dell’Ambasciata, e sganciarsi dall’accordo nucleare con l’Iran), avrei perdonato tutte le assurdità che aveva detto. Le ha mantenute tutte e due, e io ho mantenuto la mia, senza indagare sui motivi per cui aveva fatto quelle promesse. Ma sono passati sei anni e mezzo, e ha fatto quello che ha fatto. Ora basta.
“Io alzo innanzi a loro la torcia, sopra la porta d’oro”, sono le ultime parole della poesia della Lazarus. Prendo atto che milioni di americani odiano quella poesia e quella porta, mentre rimpiangono la “storia nera” del loro Paese, e vogliono farla uscire dal vaso di Pandora.
Francesco Lucrezi, storico