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Il Governo Tambroni come metafora

Il Governo Tambroni come metafora

I più anziani ricordano certo il governo Tambroni. Nel Marzo 1960, in un momento di grande debolezza politica della Democrazia Cristiana egemone e con i Giochi Olimpici di Roma alle porte, il Presidente Giovanni Gronchi affidò la formazione di un nuovo governo italiano all’On. Fernando Tambroni, esponente dell’area conservatrice della DC. In mancanza di possibili alternative, Tambroni formò un monocolore democristiano con l’appoggio senza precedenti dal 1945 del Movimento Sociale Italiano e dei monarchici. I missini, con atto di sfida decisero di tenere il loro congresso a Genova, una delle città più antifasciste d’Italia, invitando per di più Carlo Emanuele Basile, ultimo prefetto genovese durante la repubblica di Salò e responsabile della morte e della deportazione di parecchi operai e antifascisti genovesi. Questo fece scoppiare l’ira della città, che mise ferro e fuoco Piazza de Ferrari. Grandi manifestazioni di protesta ebbero luogo in numerose altre città italiane. Tambroni, uomo di legge e ordine, decise di reagire riaffermando la propria autorità ad ogni costo, e dette ordine alla polizia di sparare. Il tragico bilancio fu di un morto a Licata, cinque a Reggio Emilia, e svariati altri a Palermo e Catania. La CGIL scese immediatamente in piazza proclamando uno sciopero generale che ottenne una massiccia adesione popolare. La DC capì che doveva immediatamente cambiare rotta, e il 22 luglio 1960 il brevissimo governo Tambroni fu costretto a dimettersi.

Questo breve e doloroso episodio della storia italiana induce a una malinconica riflessione da parte di chi osservi attentamente l’odierna scena politica in Israele. Mutatis mutandis, e facendo bene attenzione alla differeza fra storia e ipotesi fanta-storiche, vi sono alcuni inquietanti parallelismi fra le due situazioni.

Israele ha rappresentato fino ad oggi non solamente l’unica democrazia nel Medio Oriente, ma anche un paradigma più generale di gestione democratica di una società complessa. Ma il paese ha conosciuto un lungo periodo di instabilità politica e di ripetute consultazioni elettorali a partire dalle dimissioni del governo Netanyahu alla fine del 2018. È stata molto sofferta l’ingovernabilità del paese, anche se Israele ha retto tutto sommato bene e meglio di altri la crisi dovuta all’epidemia del COVID-19 e alle sue ripercussioni economiche.

Ma dopo le elezioni del 1 novembre 2022 e alla formazione di un nuovo governo Netanyahu (il sesto, superato per numero seriale solamente da De Gasperi e Andreotti), il paese ha raggiunto in questi giorni un punto di crisi politica e istituzionale senza precedenti di cui è importante mettere in rilievo alcuni aspetti essenziali, anche per aggirare i luoghi comuni e la disinformazione tanto diffusi di questi tempi. Da parte di molti sostenitori del nuovo governo è stata messa in causa la legittimità dell’equilibrio vigente tra le istituzioni, e in questi ultimi giorni si è giunti allo scontro frontale da parte del potere esecutivo e del legislativo, contro l’autonomia del potere giudiziario, e a una vigorosa reazione da parte di quest’ultimo.

Il governo della coalizione di Netanyahu ha vinto alle ultime elezioni 64 seggi su 120 (53,3%), e dunque può contare su una chiara maggioranza parlamentare. Il risultato è incontestabile e riflette un voto democratico e sottoposto a infiniti controlli di trasparenza. Ma questo ha indotto i vincitori ad affermare che il popolo ha dato un chiaro mandato ai vincitori, e questo va verificato. Il 1 novembre il numero dei voti validamente espressi per la 25ma Knesset è stato di 4.764.742. Di questi, le quattro liste che formano la maggioranza ne hanno ottenuti 2.304.964, ossia il 48,3%. Tutte le altre 36 liste che hanno concorso all’elezione hanno dunque ottenuto il 51,7% dei voti. In altre parole, una sia pure modesta maggioranza degli Israeliani non hanno optato per il governo attuale, per cui non è esatto parlare di trionfo elettorale e di manifesta rappresentanza di tutto il popolo. La differenza fra la percentuale dei voti ottenuti e la percentuale dei seggi in parlamento è dovuta alla soglia di sbarramento del 3,25% (equivalente automaticamente a 4 seggi) e al mancato superamento di questa da parte della maggioranza delle liste in campo. Molte di queste formazioni sono insignificanti o perfino ridicole, ma due partiti storicamente presenti che hanno fallito la soglia, se avessero avuto solamente poche migliaia di voti in più, avrebbero contribuito a creare un parlamento in perfetta parità: 60 a 60. I due partiti sono i radicali di Meretz, la formazione della sinistra israeliana, e Balad, il partito arabo ultra-nazionalista (e in verità anti-israeliano). Dunque non una grande vittoria elettorale di Netanyahu ma un risultato che riflette il sostanziale stallo dell’opinione pubblica israeliana, oltre che, da un lato, la formula della legge elettorale israeliana, e dall’altro, l’insipienza, l’incompetenza e l’egocentrismo di quei dirigenti politici che hanno voluto concorrere da soli e non come parte di una piccola coalizione di settore. Particolarmente grave e colpevole la mancata alleanza elettorale fra i Laburisti e Meretz, che porta la firma esclusiva della segretaria generale dei Laburisti, Merav Michaeli.

Netanyahu si basa dunque su 64 seggi, di cui 32 del Likud (1.115.000 voti) e 32 dei suoi alleati (insieme 1.190.000 voti). Dunque Netanyahu non ha la maggioranza all’interno della sua propria coalizione, ed è manifestamente alle mercé dei suoi alleati. Il Likud, va aggiunto, nato sotto Menahem Begin come grande raggruppamento nazionale-liberale, certamente nazionalista ma scrupolosamente rispettoso delle regole della democrazia e in particolare del giudiziario, ha oggi una rappresentanza parlamentare ringiovanita e in gran parte su posizioni radicalmente nazionaliste e libertarie. Il partito fratello in Francia sarebbe oggi quello di Marine Le Pen.

Dei tra partiti alleati di Netanyahu, il vero vincitore della tornata elettorale è il partito del Sionismo Religioso, che ha più che raddoppiato il numero dei voti. Il partito, nonostante il nome, non ha nulla a che fare col Sionismo liberale e laico di Herzl, o con una visione della religione ebraica aperta al confronto delle idee come ci insegnano la Mishnah e il Talmud. I due capi, Bezalel Smotrich e Itamar Ben Gvir, entrambi residenti della regione Giudea e Samaria, sono ognuno a modo suo esponenti di un estremismo politico ultra-nazionalista con venature razziste, xenofobe e omofobe. L’equivalente francese sarebbe Eric Zamour.

Fanno poi parte della coalizione le due formazioni altamente religiose-segregate, quella Sefardita di Shas, guidata dall’enigmatico e pluri-processato Arieh Deri, e quella Ashkenazita di Yahadut Hatorah (l’Ebraismo della Bibbia) a sua volta formata da una litigiosa pluralità di movimenti minori ognuno legato a un diverso quartiere di ispirazione hassidica o lituana. Questi partiti religiosi non hanno nessun deputato donna, e in tutto fra i 64 deputati eletti con la maggioranza solo 9 sono donne, il che rappresenta una buona cartina di tornasole dello spirito prevalente nella coalizione di Netanyahu. Dovendo cercare un equivalente francese, lo individuerei fra i Cattolici lefebvriani.

Perché dunque la metafora di Tambroni? Quella attuale, senza ancora entrare qui in una valutazione delle prime dichiarazioni e dei primi atti del nuovo governo, è l’amministrazione più di destra nella storia di Israele che raggiungerà fra poche settimane i suoi primi 75 anni – così come quello di Tambroni fu il marcatore di destra nei primi 75 anni della storia dell’Italia post-fascista. Le dimostrazioni di protesta del pubblico israeliano nelle grandi piazze e sui ponti degli svincoli autostradali sono già iniziate e prendono corpo. Resta solo da sperare che non vi sia spargimento di sangue.

Sergio Della Pergola, demografo