In un’intervista recente (Riflessi, 6 marzo 2024) si chiede: “Questa contrapposizione fra la “Piazza” e un ebraismo più “alto”, si mantiene ancora oggi?”. Qui la domanda è più significativa della risposta, a cura di un importante e apprezzatissimo giurista, autore di rilevanti monografie. Appare stimolante, tuttavia, scoprire che c’è una differenza fra ebraismo alto e basso, e che io appartengo al secondo.
Carlo Ginzburg si era posto “un problema di cui solo ora si comincia a intravvedere la portata: quello delle radici popolari di gran parte dell’alta cultura europea, medievale e post medievale. Figure come Rabelais e Bruegel non furono probabilmente splendide eccezioni. Tuttavia, esse chiusero un’età caratterizzata dalla presenza di fecondi scambi sotterranei, in entrambe le direzioni, tra alta cultura e cultura popolare” (Il formaggio e i vermi. Il cosmo di un mugnaio del ‘500, Einaudi, Torino, 2009, par. 61).
Oggi giorno, la cultura “alta” degli Ordinari universitari (mi riferisco ai c.d. firmaioli), si fonde mirabilmente con quella c.d. popolare, nel riferirsi al genocidio che perpetra Israele a Gaza, ancorché i crimini dei quali Israele è accusato non rientrino nella definizione dell’art. II della Convenzione del 9 dicembre 1948 per la prevenzione e la repressione del delitto di genocidio. Tuttavia, ambedue, cultura popolare e cultura “più alta” convergono nella diffusione della vulgata sul genocidio.
Prima ancora, importanti intellettuali, fra i quali Carlo Ginzburg, avevano sottoscritto un appello in data 16 dicembre 2023, che chiedeva “l’immediato cessate il fuoco, il rispetto del diritto internazionale, urgenti misure umanitarie e di tutela della popolazione civile in Israele e Palestina, e la liberazione degli ostaggi israeliani rapiti da Hamas”. Certo, se l’appello (che è stato immediatamente recepito da Hamas, ma non abbastanza da attuarlo) fosse stato formulato dagli ostaggi israeliani, probabilmente l’ordine delle richieste sarebbe stato invertito, se non altro perché le donne venivano sistematicamente stuprate dai loro carcerieri. Bisogna riconoscere che una tale ipotesi andava incontro ad insormontabili difficoltà di ordine tecnico, perché gli ostaggi di due anni d’età, avrebbero incontrato qualche ostacolo, come quello di non sapere né leggere né scrivere.
Per dire che gli errori vengono commessi anche dai saggi, basterebbe vedere questo passaggio:
“Bene spesso però, come tutto giorno avviene, i dotti parteciparono ai pregiudizi del volgo, o ne accrebbero il numero, col persuaderlo di qualche nuovo errore, e sotto tale aspetto essi non debbono considerarsi separatamente dal resto del popolo…”
“Anche Marco Antonio Coccio Sabellico …. scrive, parlando della nascita di Cristo, che la Giudea è situata quasi nel mezzo della terra.’ Tra gli Ebrei, il famoso Rabbino del secolo decimoterzo David Kimcbi, dice che la terra abitabile si divide in sette parli, e che Gerusalemme è situata nel mezzo di quella parte che tra queste è la media/ Egli stima che Ezechiele nel secondo dei luoghi addotti di sopra, dicendo che Gerusalemme è situata in medio gentium, in- tenda dire che essa trovasi nel mezzo delia terra abitabile. Salomone Isaacìde, altro Rabbino, rende ancora più interessante la posizione di Gerusalemme, dicendo che, secondo Ezechiele, essa occupava il luogo di mezzo del mondo. Punto veramente misterioso!” (Giacomo Leopardi, volume quarto: Saggio sopra gli errori popolari degli antichi, Le Monnier, Firenze, 1851, pp. 10 e 208).
Quanto detto può trovare significativa conferma: “Se Leopardi, esponendo il piano generale dell’opera, aveva identificato l’errore con la rete di pregiudizi prodotti dall’ignoranza, a mano a mano che procede nella ricognizione dell’’antica imaginerie è costretto a ribaltare tale premessa. Per giustificare la costante tendenza all’errore riscontrata nel corso della storia, non è sufficiente un’educazione rivolta ad avallare, se non addirittura ad accrescere, quell’ignoranza delle cause naturali che si traduce nell’ancestrale timor provato in cospetto di fenomeni apparentemente indecifrabili. Devono necessariamente esistere delle caratteristiche antropologiche ben più resistenti ed articolate: per Leopardi si chiamano, appunto, inquietudine. Sono proprio le caratteristiche che costituiscono il polo opposto dell’ignoranza: rimandando ciascuna ad un progressivo allargamento dell’orizzonte intellettuale. Come spiegare altrimenti la diffusa presenza dei più rimarchevoli errori non solo nel (volgo nda)ma anche tra i poeti e i filosofi?” (Arturo Mazzarella, Nel Labirinto Degli Antichi Errori, La Ricerca Folklorica, no. 33, 1996, p. 41).
Prima ancora, troviamo: Thomas Brown, Pseudodoxia epidemica, or Enquiries into Very many received Tenents And commonly presumed truths. Based on The Sixth and Last Edition of 1672. Si asserisce (Chapter V) che vi è “una Terza causa di errori comuni che consiste nella credulità degli uomini, cioè un facile assenso a ciò che viene intromesso, o il credere a prima vista a ciò che viene pronunciato dagli altri. Questa è una debolezza dell’intelletto, senza un esame che consenta alle cose, che per la loro natura e causa non sono persuasive; per cui gli uomini spesso scambiano le falsità con la verità, i dubbi con le certezze, la fattibilità con le possibilità e le cose impossibili come possibilità stesse. Il che, nonostante la debolezza dell’Intelletto, e più riscontrabile nelle teste volgari; eppure, qualche volta è caduta su cervelli più saggi e su grandi promotori della Verità”. Nella Genesi, poiché la cacciata dal Paradiso deriva dal cibarsi del frutto dell’albero della conoscenza, ne consegue che la felicità consiste nel non sapere, e quindi chi ci è nemico è l’ignorante felice, e per quello il povero Carlos Rangel non poteva che intitolare la sua opera al buon selvaggio, indissolubilmente legato al buon guerrigliero (Venezuela, 1976).