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Appunti per la Giornata della Memoria: chi sono i “superstiti dell’Olocausto”?

Siamo al 27 ottobre 2024, tarda sera, è sul finire la Giornata della Memoria, e si darà la stura alle emozioni, le  quali però si limitano a registrare l’efferatezza anziché le ragioni sottostanti. Forse sarebbe più utile dire agli studenti, quel giorno, per esempio, che secondo Theodore Isaac Rubin, l’antisemitismo è una patologia (Anti-Semitism, A Disease of the Mind: A Psychiatrist Explores the Psychodynamics of a Symbol Sickness, Continuum, N.Y., 1990) che però in questo momento è divenuta una pandemia.

Detto così, significa poco, ma qualcuno dovrebbe spiegare perché l’ossessione che ha spinto Hamas a fare le autostrade sottoterra, non debba essere inserita fra le malattie mentali, e perché chi condanna non gli aggressori ma le vittime sia del tutto alieno da problemi.

Ho notato che per la Giornata della Memoria un’agenzia organizza in un piccolo Comune un evento. Questa persona viene presentata sovente dalla stampa come “superstite dell’Olocausto”; ma cosa sarebbe? Emanuella Grinberg, nello Smithsonian Magazine del 1° maggio 2019 scrive un articolo dal titolo How the Definition of Holocaust Survivor Has Changed Since the End of World War II, dove s’impegna a disquisire sulla differenza fra superstiti diretti (chi è stato prigioniero nei campi oppure è stato combattente) e indiretti (c.d. flight survivors) ma non vi ravviso dei criteri dirimenti. Secondo l’United States Holocaust Memorial Museum “sopravvissuti all’Olocausto sono gli ebrei che hanno vissuto la persecuzione e sono sopravvissuti allo sterminio di massa compiuto dai nazisti e dai loro collaboratori tra il 1933 e il 1945. Ciò includeva coloro che si trovavano nei campi di concentramento, nei centri di sterminio, nei ghetti e nelle prigioni, nonché rifugiati o quelli che si nascondono. Tra i sopravvissuti all’Olocausto figurano  tutti gli ebrei che erano fisicamente nell’ambito delle aree controllate dai nazisti, e quindi sia superstiti diretti che indiretti”. In realtà, la definizione conosce pure un ambito più vasto, laddove comprende i già menzionati flight survivors, ossia, coloro i quali sono fuggiti dalle aree controllate dai nazisti come, per esempio, Albert Einstein.

Yad Vashem fornisce questa definizione: “Filosoficamente, si potrebbe dire che tutti gli ebrei, in qualsiasi parte del mondo, che erano ancora in vita alla fine del 1945, sopravvissero all’intenzione genocida nazista, ma questa è una definizione troppo ampia, poiché manca la distinzione tra coloro che subirono la tirannia nazista, e coloro che avrebbero potuto farlo, se la guerra contro il nazismo fosse stata persa. Allo Yad Vashem definiamo sopravvissuti alla Shoah gli ebrei che vissero per un certo periodo di tempo sotto la dominazione nazista, diretta o indiretta, e sopravvissero. Ciò include gli ebrei francesi, bulgari e rumeni che trascorsero l’intera guerra sotto regimi terroristici antiebraici ma non furono tutti deportati, così come gli ebrei che lasciarono ca la Germania alla fine degli anni ’30. Da una prospettiva più ampia, anche altri rifugiati ebrei fuggiti dai loro paesi in fuga dall’esercito tedesco invasore, compresi quelli che trascorsero anni e in molti casi morirono nel profondo dell’Unione Sovietica, possono essere considerati sopravvissuti all’Olocausto. Nessuna definizione storica può essere completamente soddisfacente”.  Abbiamo qui un problema di percezione: chi rientra nella qualifica di superstite dell’Olocausto? Dei deportati, ad esempio, nel terribile 16 ottobre 1943, ne ritornarono in pochissimi. Quindi, se mi riferisco a ‘superstiti dell’Olocausto’, quale immagine viene in mente a un giovane italiano non ebreo?

Se, come asserisce Yad Vashem, nessuna definizione storica è soddisfacente,  dovrei ricorrere al criterio apagogico. Per facilitare le cose, il citato italiano medio potrebbe realisticamente considerare superstiti dell’Olocausto tutti gli ebrei italiani nati prima della liberazione dell’Italia dal nazifascismo? L’immagine, per chi scrive, rimanda a una vicenda drammatica (nascondersi, fuggire) oppure anche tragica (finire prigioniero dei nazisti). In ogni caso, posso dire che il carattere ‘insoddisfacente’ delle definizioni si presta inevitabilmente, un poco per superficialità e un poco per ignoranza, all’uso anfibologico dei termini, quindi, con un potenziale d’ambiguità non trascurabile.

Inoltre, sulla Giornata della Memoria pesa parecchio un termine che in Italia finisce per appannarne il contenuto, ed è quello di “evento”, ossia, un contenitore vuoto che, nell’inconscio profondo, sconfina nello spettacolo, svuotando o, peggio, banalizzando, finanche i significati più profondi. Cos’è un evento? Troviamo che “vedere l’evento come una emersione di un qualcosa che, come Primità, si  distacca da un fondo di regolarità -Terzità- distinguendosi da una serie di altri eventi da cui comunque trae la propria identità – Secondità -” (Daniele Salerno, Per una semiotica degli eventi, Ocula, marzo 2018, p. 22). Si apprende che “Ciò che definisce l’evento nella sua modernità è che esiste solo attraverso i mass media: “Nelle nostre società contemporanee, è attraverso di loro e solo attraverso di loro che l’evento ci colpisce, e non può non evitarci.» La copertura mediatica non si limiterebbe a trasmettere l’evento. Per Pierre Nora, lo costituisce: “La stampa, la radio, le immagini agiscono non solo come mezzi dai quali gli eventi sono relativamente indipendenti, ma come la condizione stessa della loro esistenza. La pubblicità modella la propria produzione. Gli eventi capitali possono verificarsi senza che nessuno ne parli», ammette lo storico. Ma “il fatto che sono avvenuti non fa altro che renderli storici. Perché ci sia un evento, deve essere conosciuto. Anche l’evento esisterebbe solo in questo rapporto con il tempo che accompagna la mediatizzazione – quella della modernità” (Alban Bensa et Eric Fassin, «Les sciences sociales face à l’événement », Terrain, 38 | 2002, 5-20).

Qual è il rischio? Consiste, l’insidia, in ciò che gli astanti partecipino all’evento per la sua eccezionalità, che lo distingue da una dotta conferenza, che richiama il concetto di noia. Però non sarebbe confortante che i superstiti dell’Olocausto, i nostri genitori, oppure i nostri nonni, la nostra famiglia, fossero visti e percepiti come fenomeni da baraccone. Se la base fosse quella, non ci potremmo meravigliare che si scrivano delle atrocità, come quella di attribuire agli israeliani le stimmate dei nazisti, un’operazione – non dimentichiamolo – considerata un indice di antisemitismo dalla definizione IHRA.

Diciamo pure qual è il modo di inficiare la Giornata della Memoria, affogandola nel gorgo del politicamente corretto: disquisire del solo dolore, della sola avventura dove guardia/ladro è (vilmente) sostituita da nazista/ebreo, intrattenendo e commovendo, badando sempre a rimanere a pelo d’acqua. senza nulla spiegare. Si chiama (per me) la banalità della narrativa, ed è quella invalsa un poco ovunque: ma poi non vi meravigliate se le sofferenze sono diventate non solo fungibili, ma anche passibili di atroci strumentalizzazioni. Talvolta la voce narrante si affida a un’agenzia, e l’agenzia deve per forza far quadrare i conti. Ma i conti con la storia, così, non li fa nessuno.